Caleidoscopio Fest i colori della mente 2022 – La parola che cura

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Caleidoscopio Fest i colori della mente 2022 – La parola che cura

Lo scorso ottobre abbiamo chiuso la nona edizione di Caleidoscopio Fest  dedicata al tema della parola, con un livello di soddisfazione ripartito tra conformità rispetto alle attese e superamento delle stesse.

Nel periodo tra il 7 e il 10 ottobre 2022, Lodi è stata al centro di tre eventi a cui hanno partecipato circa duecentocinquanta persone tra professionisti della cura, comuni cittadini e studenti.

Il profilo di chi ha seguito la manifestazione restituisce l’immagine di una partecipazione formata in prevalenza da giovani adulti e adulti

  • impegnati professionalmente o in ambito scolastico

  • giunti alla manifestazione per la prima volta grazie all’informazione veicolata attraverso l’organizzazione per cui lavorano o studiano

Relazioni, workshop, laboratori esperienziali, momenti di gioco e di incontro informale: una grande festa del pensare e dello stare insieme, con al centro la parola come strumento principale per costruire ed esprimere la nostra identità ma anche il nostro futuro e il sistema di relazioni e gerarchie.

Abbiamo deciso di parlare di parola perché la parola è in crisi.

Come dice Massimo Recalcati nel libro “L’ora di lezione” <<La parola circola ovunque rivelando il suo carattere inflazionato (…) tanto più velocemente quanto più appare svuotata di senso (…) facendo venir meno una delle condizioni decisive nella formazione dell’individuo.>> Ovvero, <<la parola che stabilisce una relazione stretta tra il dire e le sue conseguenze.>>

Si può parlare anche senza dire

Lo testimoniano  i primi due appuntamenti proposti, finalizzati a realizzare incontri improntati sul fare assieme.

Il primo, organizzato e gestito da Cooperativa Cioccolato 180, ha permesso a un gruppo di ragazzi e ragazze con difficoltà di inserimento lavorativo di sperimentare il processo di lavorazione del cioccolato. Insieme, hanno prodotto e confezionato dei cioccolatini e realizzato lettere alfabetiche di cioccolato con cui hanno raccontato lo stato d’animo in quel momento.  Festa, piacere, cacao, dolcezza, bontà, amo, goloso, ciao, fame, bacio sono le parole che hanno voluto condividere con chi non era presente.

Un grazie di cuore a Cooperativa Amicizia, Cooperativa Famiglia Nuova e Centro Psico Sociale di Lodi per aver aderito all’iniziativa con i loro ragazzi/e e educatori/trici.

Per il secondo incontro ci siamo dati appuntamento a SanfereOrto per una pausa di spensieratezza.

Abbiamo fatto conoscenza grazie al gioco del gomitolo. Una palla rosa srotolata mentre passava dall’uno all’altro – ognuno dicendo il suo nome e il suo piatto preferito – e ritornata a essere gomitolo ripercorrendo a ritroso il cammino fatto all’andata.

Intorno alla grande quercia di SanfereOrto, adulti e bambini, si siamo concessi una merenda golosa grazie ai prodotti offerti da Comitato soci Coop di Lodi e Tavazzano e ai cioccolatini dell’evento creati da Cooperativa Cioccolato 180.

Abbiamo concluso il pomeriggio inaugurando l’installazione artistica realizzata nell’ambito del progetto di inclusione sociale BIOdiverCITY e donata a Movimento Lotta alla Fame nel Mondo perché diventasse la porta simbolica di accesso all’area verde di SanfereOrto. (foto DSC 0060 e 0016). Lo spazio delegato a narrare la funzione e le esperienze di accoglienza e aggregazione del posto. Ma anche a stimolare punti di vista diversi sui concetti di città, abitare e integrazione.

La parola che cura non è mai neutra.

La parola che cura di cui abbiamo discusso il 10 ottobre e con cui abbiamo celebrato la Giornata Mondiale della Salute Mentale è quella parlata.

Quella che parliamo – ci ha detto la Professoressa Graziella Priulla  – è la parola con cui veniamo parlati. Ovvero, le parole che usiamo sono quelle che siamo abituati ad ascoltare: siano esse parole buone o cattive, parole che fanno stare bene o procurano ulteriore malessere. Questa inerzia

  • nasconde il rischio dell’uso inconsapevole di parole che intossicano e feriscono

  • spiega l’esigenza di una riflessione che ci aiuti a chiarire in che modo le persone stanno dentro alle loro abitudini linguistiche: quali sono i filtri e le gerarchie culturali che le condizionano e i punti di vista che ne derivano

Essere educati a pensare bene aiuta a parlare bene

La relazione della Professoressa Elisabetta Musi  segue la traiettoria proposta dal primo contributo. Se è vero che ci sono parole che fanno stare bene e parole che fanno stare male, altrettanto è per l’azione educativa necessaria per imparare a parlare: può ben-educare o mal-educare. La differenza negli effetti prodotti dall’educazione dipende:

  • dal riferimento più o meno esclusivo alla propria esperienza personale per stabilire quale parola utilizzare nei contesti educativi e, implicitamente, di cura

  • dalla consapevolezza in merito all’importanza della parola e alle tante “ombre” che la offuscano facendo di essa lo strumento per diminuire le possibilità di essere anziché il mezzo per far fiorire l’esistenza

Tra le ombre che impediscono di rischiarare il cammino della crescita individuale, la Professoressa Musi si è soffermata su:

    • abuso di potere sull’Altro: la parola che ci riduce a una parte di quello che siamo (la patologia ad esempio) o a un oggetto già conosciuto, ignora la nostra interezza e non ci riconosce il diritto al cambiamento

    • non detto: ciò che pensiamo di poter occultare solo perché non ne diciamo è, per l’Altro, il “non ancora” dell’esistenza. Una delle tante forme, di maltrattamento verbale, insieme all’abuso di potere, che anticipano il possibile maltrattamento fisico

La parola che cura è ospitale

Possiamo quindi dire, nel solco del contributo della Dottoressa Angela Rancati che l’uso di una parola o di un’altra produce effetti diversi. Non è indifferente.

La parola che educa e fa star bene è frutto di una scelta consapevole e personale. Non è il prodotto automatico del contesto educativo. È invece, la parola pensata rispetto al momento che sta attraversando la persona a cui è diretta. Difficilmente può quindi essere educativa per tutti.

La possiamo definire una parola ospitale, perché detta per accogliere l’Altro ma anche noi in relazione con l’Altro. Una parola “calda”, pronunciata per creare benessere, essere  custodita, forse riutilizzata. Una parola che sentiamo nostra e stimola l’evoluzione dell’atteggiamento verso noi stessi e verso gli altri.  Una parola che permette a chi parla e a chi ascolta, di sperimentarsi come soggetto al tempo stesso conoscente e conosciuto. E grazie a questa dinamica, di evolvere.

L’invito, in chiusura, è di fare nostre le strofe della poesia di Emily Dickinson <<Una parola muore appena detta, dice qualcuno.  Io dico che solo in quel momento comincia a vivere>>.

La parola della psichiatria parla la lingua della persona portatrice di disagio?

A lodi, ancora no. Ma in più di una persona, il confronto aperto ha gettato  le basi per una riflessione.

Il dialogo sul tema della parola che cura, avviato dalla Dottoressa Anna Garbelli, Presidente di Curiosamente APS e dal Dottore Giancarlo Cerveri, Direttore del Dipartimento di Salute Mentale e Dipendenze di Lodi, si è poi allargato ai contributi di alcuni tra partecipanti e relatori.

La funzionalità della semplificazione del linguaggio in psichiatria, rispetto alla trasmissione veloce di dati e informazioni tra colleghi, è apparsa meno evidente quando applicata alla comunicazione con le persone di cui la psichiatria si dovrebbe occupare.

Sia perché le cure, a differenza  di quelle di altre discipline mediche, riguardano un malessere dell’anima più che un organo, sia per la diversità tra le ricadute della sofferenza psichiatrica e quelle indotte da altre malattie, sulla famiglia e, più in generale, sulla rete di conoscenti e amici.

La parola psichiatrica non può quindi ridursi alla parola medica; non può esimersi dal considerare il valore della parola connotativa con cui le persone portatrici di disagio esprimono come si sentono e la profondità della loro sofferenza.

Affinché la parola psichiatrica diventi curativa non solo in senso medico, occorre quindi costruire un ponte che la colleghi con quell’umanità di sofferenze interiori che ha l’ambizione di curare.