Stare bene o stare male nei contesti educativi – Professoressa Micaela Castiglioni
La parola rivela il rapporto di ognuno con il proprio mondo interiore e la capacità di esprimere, anche attraverso la professione, un atteggiamento creativo in grado di rinnovare costantemente l’interesse, nostro e degli altri, verso la materia di cui ci occupiamo.
Il lavoro, scelto o non scelto, più o meno appagante, così come il contesto lavorativo, ci mette alla prova e richiede, soprattutto se creativo o centrato sulla relazione, una adeguata e sufficientemente buona maturità emotiva (Blandino, Granieri, 1995). Maturità che non possiamo ritenere essere acquisita una volta per tutte e in modo stabile e definitivo, perché non sarebbe tale, ma necessariamente e sempre in divenire perché legata alla relazione con l’Altro, anche l’Altro dentro di noi e quindi sempre pertinente al contesto in cui la esprimiamo.
Le considerazioni sopra esposte non sono solo vere in generale ma vanno considerate cruciali nei lavori educativi. Gli insegnanti e gli educatori (sociali o sanitari) svolgono un lavoro ad alta intensità e implicazione relazionale. In questo contesto, i comportamenti di chi ha il compito di educare interagiscono spesso in modo più diretto e immediato delle parole. Le conseguenze sono il possibile deterioramento della relazione con le persone affidate alla loro cura e l’alimentazione di una catena di effetti in grado di compromettere stabilmente la loro formazione identitaria.
Il lavoro di “educatore” mette in gioco una gamma complessa e articolata di emozioni e vissuti a cui andrebbero aggiunti, sempre secondo Blandino e Granieri, i fantasmi e le proiezioni che hanno preso forma e si sono stratificati nel loro mondo interno nel corso della personale storia di vita, educativa e di formazione. In queste situazioni, la mancanza di una adeguata maturità emotiva può portare chi educa ad agire in modo non sempre consapevole i propri vissuti interiori e a impostare la relazione in modo non sempre funzionale a essere riconosciuto come figura di riferimento. Difficoltà che minano alla base il suo ruolo di facilitatore della crescita emotiva, cognitiva, intellettuale e culturale della persona di cui dovrebbe prendersi cura, lungo un percorso di progressiva conquista di autonomia e responsabilità.
Perché quindi un laboratorio su questo tema indirizzato a un pubblico di “educatori”? Quale il nesso tra professione esercitata, ruolo agito e benessere o malessere del gruppo? Quale il collegamento tra maturità emotiva e responsabilità della parola? Le risposte a questi interrogativi muoveranno da alcune proposte narrative e dall’uso della parola auto-riflessiva rispetto all’essere adulti e educatori nei nei contesti lavorativi della scuola, delle comunità e dei servizi socio-sanitari. Non solo quindi riflettendo sulla propria maturità emotiva ma anche considerando la trama emotiva che origina dai rapporti ai diversi livelli: con l’organizzazione (scuola, comunità, ospedale) con i colleghi, con i genitori, e con le immagini non sempre gratificanti che l’opinione sociale attribuisce alla professionalità e al lavoro dell’insegnante o dell’educatore. Non sempre colto nella sua complessità e delicatezza.
Dire il mondo. Parole che diminuiscono le possibilità di essere o che fanno fiorire l’esistenza – Professoressa Elisabetta Musi
La parola rivela il nostro rapporto con l’esistenza, dice di derive e smarrimenti o al contrario di posture esistenziali salde e consapevoli. Mancare di parole con cui dire di sé, della propria relazione col mondo, è mancare di presa sul reale.
Le parole hanno infatti un carattere performativo: possono dare forma all’esistenza, una bella forma, o deformarla, impedirle di fiorire, soffocarla in relazioni corrosive.
Chi si dedica ai compiti educativi e di cura dovrebbe farlo ponendo anzitutto attenzione alle parole con cui il soggetto rappresenta se stesso e il rapporto con la realtà che lo circonda. E, nondimeno, dovrebbe prestare attenzione alle parole che utilizza, a partire dalle quali la relazione prende forma assumendo una valenza educativa.
Quindi quando una parola educa? Cosa fa sì che una parola possa dirsi propriamente educativa?
Il tentativo di dare risposta a questi interrogativi muove dal confronto con educatrici, pedagogiste, insegnanti, professionisti/e che operano in carcere o in ospedale. Ne sono scaturiti stimoli di pensiero e indicazioni operative per la costruzione di una teoria critica in grado di definire condizioni e caratteristiche affinché la parola possa far fiorire l’esistenza, ovvero possa dirsi efficacemente educativa.
La quotidiana responsabilità della parola – Professoressa Graziella Priulla
Che cosa significa ‘comunicare’? Una definizione che mi piace è “dischiudere uno spazio comune di relazione tra gli interlocutori”: si tratta di una prassi di responsabilità e di riconoscimento reciproco, di una prospettiva che rifiuta l’idea del mondo come giungla e l’individualismo come stella polare dell’etica. Ascoltare, capire, dialogare, mediare: l’arte della comunicazione è complessa e non si riduce a mere emissioni verbali, anche se la lingua fonda la communitas e ne è il collante.
Essa reca in sé la sedimentazione dei significati collettivi attribuiti alle parole nel corso del tempo, come deposito di tutti gli elementi (giudizi di valore, rappresentazioni, fantasie, emozioni, affetti, paure, desideri, idee e comportamenti) cui veniamo socializzati fin dalla nascita. Parole su parole, narrazioni su narrazioni, bambine e bambini ci crescono dentro, con quello che comporta.
Le parole non sono strumenti inerti ma definiscono l’orizzonte nel quale viviamo: noi siamo le parole che usiamo, la lingua ci fa dire le parole cui la società l’ha abituata. Non solo manifesta ma organizza e condiziona il pensiero. Non ha solo la funzione di definire i valori ma concorre a determinarli. Può essere usata per rispettare o per disumanizzare, per stimolare comportamenti civili o incivili, per includere o per escludere: bisogna prestarvi attenzione, perché è il mezzo privilegiato attraverso cui costruiamo i significati.
Ha molteplici dimensioni e comporta molteplici scelte che per la ripetizione quotidiana diventano automatiche: non solo il lessico ma il tono, il registro, l’espressione …
Lavorare sui linguaggi equivale a lavorare sull’organizzazione della coscienza, per questo lo si deve fare fin dall’infanzia.
È nella zona più inavvertita del nostro cervello che si disegnano i perimetri delle sfere concettuali, si organizzano le definizioni, si tracciano le frontiere del dicibile e dell’indicibile, si costruisce il senso. L’accettazione acritica di una prassi violenta e discriminatoria diviene inaccettabile nel momento in cui se ne prende coscienza, ma è necessario che qualcuno aiuti a farlo.
Se poi rifiutiamo il conformismo, dobbiamo prendere in esame i luoghi comuni e gli stereotipi da cui è costellato il nostro pensare come il nostro dire. Gli stereotipi si fondano su generalizzazioni arbitrarie che fissano le somiglianze e tendono a trasformare le differenze in disuguaglianze, favorendo i pregiudizi e perfino gli stigmi. La paura del diverso e la gerarchia tra gli esseri umani hanno lasciato nella storia una traccia indelebile.
Lo stereotipo non si limita a descrivere la realtà ma, descrivendola, la plasma. Il nostro mondo stereotipato non è necessariamente il mondo come lo vorremmo e come ci renderebbe felici: è solo il mondo come ce lo aspettiamo.
Quest’aspettativa rende più facile la vita ma in realtà la banalizza; in altri termini ci permette di pensare di meno. Di vivere di meno. Si può essere soggetti attivi del proprio progetto di vita anche pretendendo che il linguaggio intorno a noi sia migliore.
Le parole ospitali. Cosa sono e perché sono necessarie in un rapporto educativo che produce evoluzione – Dott.ssa Angela Rancati
Prendo in considerazione la parola nel contesto educativo, perché è quello che frequento quotidianamente, ma la ricchezza della parola, quando diventa “cura della persona” la si può sperimentare in molti altri ambiti relazionali che ci troviamo a vivere e, assolutamente non ultimo, quello della sofferenza delle persone ferite dalla malattia.
“Sono, queste, le parole di cui hanno bisogno le persone fragili e insicure, sensibili e vulnerabili, indirizzate alla disperata ricerca di accoglienza e di rispetto della loro debolezza: della loro dignità.” (Eugenio Borgna, Le parole che ci salvano).
Maestra mi dici una bella parola? Era la richiesta che mi faceva una bambina di sei anni che non voleva stare a scuola. Aveva trovato in me e nel gioco di accoglienza che le avevo proposto, la possibilità di starci più volentieri. La parola bella è quella “ospitale”.
Quali sono le parole belle? Sono quelle calde, vive, quelle che quando le pronunci senti cambiare qualcosa in te e in chi ti ascolta. Il contrario è la parola fredda, vuota, fine a se stessa. Il suo scopo non è migliorativo, non è pensata per quel
momento né per quella persona.
In educazione, la parola a cosa deve tendere? A creare un dialogo, un’alleanza comunicativa dove possiamo esprimerci, ascoltarci con libertà e assenza di giudizio. La parola “calda” costituisce relazioni autentiche, ci permette di sintonizzarci col terreno emotivo del nostro interlocutore. Le parole calde sono quelle pensate, meditate, quelle che curano; mettono chi parla e chi ascolta nella condizione di riflettere su se stessi. Quando impariamo a non seguire l’impulso ma a ragionare prima di aprire bocca, troviamo una situazione di equilibrio per le nostre emozioni evitando di sparpagliare parole a casaccio come fossero coriandoli.
Ma perché parliamo senza pensare? Perché un pensiero “pensato” prevede di avere la capacità essenziale di pensare chi hai di fronte come persona nella sua interezza. Spesso, invece, siamo vittime di automatismi, a volte della prepotenza, dell’egoismo. Succede che usiamo chi ci ascolta come se fosse un cassetto per le nostre frustrazioni. Quando impariamo a conoscere l’ospitalità delle parole, aumentiamo la fiducia in noi e in chi è in relazione con noi,
permettendo di creare la capacità di affrontare e gestire le emozioni, contribuendo a sviluppare una dinamica
di pensiero più utile e sana.
Una parola viva, emozionata e pensante può innescare la scintilla per la progettazione di una educazione
alla felicità? Penso di sì, ed è il significato trascendente che, personalmente, applico al ruolo educativo.
Ma allora si può insegnare la gioia?
Armocromia, l’arte di indossare le parole del colore che più ci valorizza – Dott.ssa Angela Rancati
Le parole come “abiti” metaforici con i quali vestiamo i nostri stati d’animo. Siamo sicuri di “indossare” le parole che più ci fanno sentire bene? E siamo sicuri che, chi è in relazione con noi, abbia i nostri stessi gusti in merito a forma e colore delle parole che usiamo? In questo laboratorio, cercheremo di imparare, attraverso prove ed errori, che esistono parole che ci “donano” più di altre e che, scegliere di usarle è utile per il nostro benessere. Lo è ancor di più in un ambito di cura e supporto alla crescita della persona, perché permette alla comunicazione di prendere la forma e la direzione più agevoli a creare relazioni vere.
Dalla parola che cura alla parola che imprigiona: dialogo aperto con la psichiatria – Dott. Giancarlo Cerveri, Dott.ssa Anna Garbelli
Semplificazione del linguaggio:
In psichiatria è necessario saper distinguere con immediatezza se ci si sta riferendo alla persona con disagio e fragilità o a quella/quelle del suo originario contesto di riferimento. Una prassi comoda e funzionale
- semplice scorciatoia o possibile habitus?
- le implicazioni sulla persona con fragilità psichiche e sul processo di cura
Spazio e confine:
Quando l’uso della parola ammette il “maltrattamento”, la corrosività dei messaggi riflette il fatto che sono anzitutto saltati i confini tra sé e l’Altro. Se percepito come un’estensione di sé (il mio paziente…), l’Altro perde il diritto fondamentale a una alterità come principio di individuazione unica e particolare (Jung). La possibilità di comunicare, di costituire una modalità di alterità, di creare un dialogo, presuppone una spazialità distanziata, un silenzio da cui nasca la parola, uno sguardo da cui nasca il vedere (F. Basaglia).
- qual è il nesso tra semplificazione del linguaggio e spazio/confine?
- ( ri)stabilire i confini come forma di tutela e protezione
Costruire e condividere un linguaggio della cura:
Dal punto di vista di chi parla, il sistema linguistico (i vocaboli e le frasi) è una costruzione sempre aperta e tipica del contesto in cui si agisce. Questa tipicità non è ragione sufficiente per trascurare il potenziale distruttivo o dis-educativo delle parole (Jakobson, 1973).
- il rischio di un linguaggio arbitrario (stelllina)
- la responsabilità della parola che cura in un contesto come un Dipartimento di Salute mentale può essere condivisa? O comporta necessariamente un indirizzo “dall’alto”?
Le parole nel corpo:intenzione e consapevolezza nella relazione – Dott. Michele Monticelli, Dott.ssa Laura Belloni Sonzogni
Come nasce la parola nel corpo? La voce vibra in noi sulla base delle emozioni che stiamo vivendo, delle intenzioni e motivazioni relazionali, delle nostre esperienze vissute e della nostra storia personale e di tanto altro. La parola che si fa voce è un modo di entrare in relazione: l’aria dalla bocca inizia a vibrare e il suo riverbero raggiunge nello spazio il timpano dell’orecchio trasformandosi in suoni, significati ed emozioni. È la meraviglia dello scoprirsi in contatto e interconnessƏ. Il laboratorio si propone inoltre di esplorare l’effetto che le parole hanno su di noi non solo da un punto di vista corporeo – tono, ritmo, volume, timbro – ma anche il vasto mondo dei significati che esse veicolano; di portare consapevolezza sulle parole che più spesso rivolgiamo a noi stessƏ e su quelle che ci definiscono maggiormente in termini identitari; di consentire l’emergere delle parole che sentiamo più autentiche in un dialogo profondo alla presenza dell’AltrƏ.